martedì 27 febbraio 2024

LE FOLIE CALAIS


A Calais c’è il mare in burrasca.


Oggi non si vedono biancheggiare all’orizzonte le bianche scogliere di Dover.

Volti familiari sferzati dal vento sfiancante, si fondono con quelli di sconosciuti in attesa che quel maledetto specchio di mare distante appena trenta chilometri dall’Inghilterra si calmi e riparta il primo traghetto.

Dovunque un livido d’umidità mista a salsedine, odoraccio d’oceano, e i soliti gabbiani famelici che si attardano come enormi equilibristi su pescherecci sballottati dalle onde.

Calais è un porto di mare nel vero senso del termine. E’ un po' come lasciare la porta di casa aperta con gente che ti entra dentro per prendere un bicchiere d'acqua, e magari va pure in bagno uscendo senza salutare.

I cittadini di Calais appaiono entità invisibili per chi passa di qua.

Ma oggi, finalmente, c’è qualcosa di nuovo, a parte il mare mosso.

Oggi.

Ladislaz Lozano, cinquantenne impiegato comunale d’origini spagnole sfuggito al regime di Franco, è allenatore di calcio per diletto. E’ uscito un momento dal locale per fare due passi sul lungomare da solo nonostante il tempaccio.

L’enorme spiaggia è vuota. Deve respirare e rimettere in ordine i pensieri.

Da poco si è ripreso da un malore causato da eccessivi festeggiamenti, e in ospedale ha ricevuto nientemeno che un telegramma dal Presidente francese Jacques Chirac, che gli augurava ogni bene e gli dava appuntamento a Parigi.

Il motivo? L’aveva combinata grossa.

Lo dice la foto di quella pagina de L'Équipe portata dalle raffiche, che si avvinghia per un attimo indefinito a uno dei pali di legno impregnati di smalto, che sorreggono la “Friterie”..

Il suo Calais ha conquistato la finale della Coppa di Francia battendo a Lens il Bordeaux. E i suoi giocatori ora nella tuta d’ordinanza giallorossa sono a pochi passi da lui a mangiare pesce e mele fritte come hanno fatto tutta la vita, perchè anche adesso che l’intero paese li aveva visti in televisione restano fedeli alla loro ritualità.

La classe operaia va in Paradiso, ma vuole farlo secondo il suo stile.

Da dilettanti della pedata.

Si è vero, c’erano stati autografi, interviste, delle foto con qualche bella donna, ma in fondo eccoli lì, schietti e un pò ingenui, seduti a scherzare, una combriccola di bravi ragazzi.

Un paio di agenti di commercio, un magazziniere, qualche impiegato, un giardiniere, due insegnanti, un imbianchino, un pasticciere, uno studente universitario, un responsabile di campeggio, un parrucchiere, un educatore e l’animatore di un centro sociale.

Mon Dieu.

Come hanno fatto? Come hanno potuto? Chi ha permesso che nell’era del calcio che fa rima con business all’alba del nuovo secolo, questa manica di onesti cittadini prendesse in giro il sistema, i soldi, gli interessi milionari dei club della massima divisione?

Lozano rientra, chiudendosi alla spalle il grigio della Manica, e subito partì l’ennesimo brindisi, l’ennesimo applauso. A capotavola l’unico con due franchi in più in tasca: Jean Marc Puissesseau proprietario e presidente della squadra fondata nel 1902. Questo pazzo, pazzo, Calais Racing Union FC.

Che sia stata tutta colpa del temutissimo Millennium Bug? In fondo è il maggio del 2000.

Bah.

Riprendiamo.

Favola, sogno, copione cinematografico a basso costo. Gente comune che ha vissuto un’esperienza indimenticabile e che dopo la finale è tornata alla sua vita, agli stessi amici, allo stesso impiego.

Giusto, evviva la retorica. Condiamola con l’immedesimazione e il gioco è fatto.

Tuttavia non è così semplice calarsi nella testa di quei giovanotti che nel giro di qualche mese hanno scritto una pagina indelebile di calcio. Una storia corale attraverso una gamma di colori e sfumature varie.

Tutto potrebbe incominciare dall’epilogo. Da quel tabellone del nuovissimo e stracolmo Saint Denis di Parigi che alla fine del primo tempo della finalissima diceva Calais 1 Nantes 0, gol di Jérôme Dutitre al minuto trentaquattro.

Jérôme che lavorava in Comune a Calais, 80000 persone allo sportello non se l’era mai ritrovate tutte in fila e sinceramente è un bene. Quando infilò il pallone alle spalle di Landreau con un sinistro ignorante e basso, la sua esplosione di gioia nel boato è una vertigine senza fondo.

“Alla lunga cederanno”, era l'anatema. Quello che pensavano tutti.

Invece il Calais continuo' a eliminare gli avversari, turno dopo turno.

Negli ottavi occorse andare a giocare a Lens. Troppo piccolo ovviamente il Julien Denis, e troppo modesto anche l’impianto della vicina Boulogne per ospitare il Cannes, squadra cadetta piegata ai calci di rigore. La gioia per aver raggiunto i quarti di finale fu doppia, quando il Calais dovette affrontare una squadra di Ligue 1. Pescarono lo Strasburgo, offrendo una gara splendida, conclusa strepitosamente 2-1, dove si placò anche la sete di vendetta dello stesso Dutitre, smarritosi per responsabilità non accertate proprio nelle giovanili del Racing Club.

Fine dei rimorsi. Si aprirono le porte della semifinale.

E qui contro il Bordeaux avviene un altro miracolo. Il Calais dovette far ricorso a tutte le sue armi fisiche e mentali, gettando letteralmente il cuore oltre l'ostacolo.

Dopo che i 90' regolari si erano chiusi sull'1-1, nell’appendice dei supplementari, sfiniti e con i crampi, i giocatori del Calais riuscirono a segnare due reti nei minuti finali a cavallo del 120esimo. Finì 3-1 con sugli scudi Mathieu Millien, un piccoletto leggermente stempiato, nativo di Calais dove insegnava alle scuole elementari.

Roba da matti.

Riecco Parigi e i giallorossi della costa in vantaggio a metà gara.

Il portiere e bandiera Cédric Schille, cresciuto nel prestigioso Metz ma giunto a Calais con i sogni di gloria calcistica messi anticipatamente in un cassetto, vede dietro l’angolo la sua rivincita personale.

Il capitano difensore Réginald Becque, occupato in un azienda di scaffalature saprebbe già dove poggiare la copia del trofeo.

Mickaël Gérard magazziniere si vede già festante, issato dai colleghi in alto sul suo carrello elevatore giallo.

Il Calais stava giocando la partita perfetta per una squadra del suo genere. Non solo aveva contenuto gli avversari. Era clamorosamente in vantaggio. Ma quel clamoroso ormai era termine fin troppo abusato.

E gli altri? ma si ci stiamo dimenticando degli altri. Del Nantes.

I “canarini” avevano sconfitto in semifinale i campioni di Francia in carica, mostrando una compattezza ed una resistenza fisica impressionanti.

La favola se vogliamo non è a lieto fine.

A quattro minuti dall’inizio del secondo tempo, arrivò il pari del Nantes: a siglarlo è Sibierski, giovane promessa mai mantenuta del calcio transalpino.

E poi, quando ormai tutto sembrava convergere verso l’agonia dei tempi supplementari, ecco che Alain Caveglia si involò verso la porta del Calais, e il giovane Fabrice Baron gli si oppose troppo energicamente. L’esperienza, cioè quella cosa che capisci di possedere nell’ esatto istante in cui commetti un errore, indusse l’arbitro, Claude Colombo a indicare il dischetto.

Un calcio di rigore stregato e in pieno recupero. Il portiere Schille, non si darà mai pace per quell’episodio che a distanza di anni durante la notte, tornerà a visitarlo nei brutti sogni.

L’arbitro fu irremovibile.

Sibierski si occupò della trasformazione. Non era più tempo di miracoli, il pallone venne solo sfiorato dall’estremo difensore che batté con violenza i pugni nell’erba umida del grande stadio parigino.

La coppa se la presero i professionisti.

Eppure, nonostante il Nantes vinse quella Coppa, fu il Calais il vincitore morale della sfida.

L’intero stadio tributò loro un lungo applauso, ed il capitano e portiere del Nantes, Mickaël Landreau, decise di alzare la Coppa insieme a Becque, il capitano dei piccoli dilettanti che avevano fatto innamorare la Francia.


Simone Galeotti

Radio Cruijff in giro: ALESSANDRIA


Domenica 10 Aprile 2022

Alessandria è la seconda tappa delle presentazioni dal vivo del libro "Per sempre con noi" in memoria di Christian. Il tutto si svolge nel negozio "Corner" dell'amico Massimo Castelli ed autore di uno dei pezzi del libro. Prima e dopo la presentazione del libro, un bellissimo DJ set e tante chiacchere con i presenti.

Saremo ad Alessandria anche nel prossimo autunno 2024 per la presentazione del secondo volume in memoria di Christian.























OLTRE LA FORESTA



Chissà cosa passava nella testa di Helmuth in quei giorni di inizio Giugno del 1986. I primi sussulti estivi di Bucarest gli accarezzavano la pelle in modo gentile e sotto i baffi che portava con orgoglio, un sorriso compiaciuto si allargava radioso sul suo viso. D’altronde, da qualche tempo era diventato il personaggio più amato e ricercato di Romania, un ruolo che a dirla tutta, in vita sua non avrebbe di certo disdegnato. Merito di una partita di calcio, di una vittoria sorprendente, contro il grande Barcellona, da parte di una squadra rumena, e proprio in terra spagnola.  La prima squadra rumena a vincere la Coppa dei Campioni. Una vittoria ottenuta ai calci di rigore, dove il portiere si erse ad assoluto protagonista neutralizzando tutti i tentativi dei catalani, ammutolendo i sessantamila tifosi “di casa”. Quell’estremo difensore, dalla divisa verde e le lunghe braccia cadenti alle ginocchia era proprio lui: Helmuth Duckadam, “l’eroe di Siviglia”. Delle feste mai viste prima di allora furono organizzate al ritorno in patria; divenne in breve tempo una star ben voluta e ammirata dall’intera nazione. Avrà pensato allora, che ad un eroe sarebbe stato concesso tutto, anche dei commenti poco ortodossi sul governo della Romania, un governo a lui mai piaciuto fino in fondo, ma evidentemente Ceausescu non la pensava cosi. Helmuth era un “sopportato” dal regime, che di certo non lo poté oltraggiare nel suo momento di massima celebrità popolare, ma che di sicuro non lo vide di buon occhio per via di alcuni atteggiamenti, della sua etnia tedesca, del suo cognome che non terminava con “escu”,  del suo guardare con curiosità verso l’occidente e soprattutto, cosa che si saprà in seguito, per essersi rifiutato di partecipare a delle “combine” riguardanti la sua Steaua, la squadra dell’esercito, e ordinati dall’alto. Un personaggio che si tenne volentieri in disparte, che mai dichiarò apertamente il suo attaccamento al governo rumeno e che lasciò spesso ad altri compagni di squadra i lustrini della gloria popolare. Quei suoi occhi, sempre velati di quella malinconia tipica dei transilvani, si muovevano curiosi in quei giorni di festa, lesti ad intercettare le parabole della sua inaspettata popolarità e pronti a prendere il primo treno che lo portasse lontano da lì. Il suo tempo in Romania pensò fosse finito finalmente. Perché crescere a Semlac negli anni 60 fu tutt’altro che una passeggiata. In quell’angolo di Transilvania, terra famosa perlopiù per le avventure di Dracula, e comandato dal regime comunista, sognare una vita  altrove era la fondamentale spinta per cercare di levarsi da quei luoghi di povertà e miseria. “Oltre la foresta” è il senso etimologico della parola Transilvania, ma anche il manifesto speranzoso di chi solo per sfortuna era nato in quei luoghi selvaggi intorno al fiume Mures, composti da tante isole boschive e piccole lingue di sabbia, proprio a ridosso del confine rumeno-ungherese. Un territorio di confine. Con tutto quello che ne poté conseguire,  tra processi migratori per motivi economici e richieste di autonomia interni. Una regione dove si parlavano una decina di lingue diverse tra loro. Qua nel 1959 nacque Helmuth Robert Duckadam, uno che “oltre la foresta” ci voleva andare davvero. Troppo pigro per giocare fuori, prese presto posto fra i pali, ruolo che gli venne quasi spontaneo per via del suo fisico atletico e i grandi riflessi. Dopo la notte di Siviglia, si interessò a lui il Manchester United, ma il regime, proprietario della Steaua Bucarest, disse di no. Questione di principio, di far capire chi comandava veramente e poi arrivarono strane voci sul conto di Duckadam. In giro si mormorò che avesse ricevuto in regalo una macchina Mercedes, dal Real Madrid, come ringraziamento per aver battuto il Barcellona. Un rumeno però non poteva andare in giro con una macchina del genere, ne andava del prestigio del governo, una cattiva pubblicità per il regime che tutto voleva tenere sotto la sua ala protettrice. Helmuth non ne volle sapere di cedere anche questa volta ai comandi dall’alto, troppi i soprusi di cui era stato vittima e troppi i pestaggi e le sparizioni a cui aveva assistito per assecondare di nuovo il volere statale. Il destino però era in agguato, bastardo e viscido. Dopo pochi mesi dalla magica notte andalusa, Duckadam sparì definitivamente dalle scene calcistiche. Una trombosi ad un braccio dirà il diretto interessato e mai smentirà forse con una punta di vergogna, ma la versione più accreditata fu che gli avessero rotto le braccia quelli della Securitate, poiché non volle consegnare al figlio del dittatore Ceausescu la sua Mercedes, e per alcuni frasi di troppo sul regime dello stesso. Lo spedirono altrove, licenziato dall’esercito e messo a mezzo servizio senza pensione integrativa. Divenne poliziotto di confine, una vita a cercare di scappare  “oltre la foresta” per poi ritornarci dentro malinconicamente.

DP

SPALTI DEL CIELO


Christian stava aspettando una persona.

Si accese una sigaretta. Era già la quarta della mattinata. Il suo cuore era in subbuglio, colmo di emozione e trepidazione ma era elettrizzato da quell’incontro imminente.

Un uomo salì lentamente quei vecchi gradoni di legno, alla cui estremità sedeva Christian.

“Buongiorno, signor Johan” disse emozionato. “Macché signore, diamoci subito del tu, che qui non

c’è nessun signore” Si fumarono un paio di sigarette, quasi in silenzio religioso.

Squillò il telefono di Christian ad interrompere quel
momento di estasi silenziosa. Johan vide l’adesivo di Radio Cruijff attaccato al telefono del vicino. “Posso avere quell’adesivo?”
Christian arrossì, quasi preso in castagna, si vergognò un poco di quell’invasione di campo e di tanta sfrontatezza. Lavorava da qualche tempo per Radio Cruijff ed era qui per la sua rubrica “Spalti del cielo” Accennò qualcosa in evidente imbarazzo. “Non ti preoccupare Christian, se ho deciso di accettare questo incontro è perché so che Radio Cruijff sta dalla mia stessa parte. Possiamo iniziare l’intervista Christian” “Ok Johan, iniziamo”.

Si accesero una sigaretta e iniziarono a parlare di fubal.


DP

lunedì 26 febbraio 2024

LA GLORIA DI TONY



A leggere distrattamente la carriera di Anthony "Tony” Parks, non sembrerebbe nulla di imprescindibile. Tanta panchina e poche presenze in campo, eccetto le esperienze al Brentford ed al Falkirk in Scozia. Tuttavia nel vissuto calcistico di questo portiere, londinese di Hackney, classe 1963, vi è stato un momento, seppur breve, di un'intensita' tale da nobilitare tutti quegli anni da onesto comprimario.

Stagione 1983/84: il ragazzo cresciuto nelle giovanili del Tottenham è approdato in prima squadra, ma quando hai davanti uno come Ray Clamence, non puoi ambire ad altro che non sia un posto in panchina e farti trovare pronto se dovesse casomai presentarsene l'occasione.

Ed effettivamente l'occasione arriva, ed è di quelle da far tremare i polsi....gli uomini di Keith Burkinshaw, giungono alla doppia finale di coppa Uefa contro l'Anderlecht guidato da Paul Van Himst. Un infortunio mette fuori gioco Clemence, quindi sarà proprio Tony a difendere la porta degli Spurs.

9 maggio 1984, va in scena in Belgio il primo atto, la gara seppur non eccelsa, è comunque godibile e sostanzialmente equilibrata. Parks nello specifico fa il suo, soprattutto con una bella uscita al limite nella ripresa che chiude lo specchio all'avversario; il Tottenham passa in vantaggio con Miller di testa sugli sviluppi di un corner al quarto d'ora della seconda frazione e avrebbe pure l'occasione per raddoppiare, così come l'Anderlecht di riacciuffare il pari, ma tutto rimane invariato. Poi a cinque minuti dal termine la frittata: conclusione dei padroni di casa appena dentro l'area, Tony si oppone ma non trattiene e per un giocatore esperto come Morten Olsen è uno scherzo ribadire in rete da pochi passi, 1-1 e si va al return match.

White Hart Lane, 23 maggio, la la sera in cui si assegna la coppa.

Gli spurs costruiscono alcune buone occasioni, ma dove non arriva il portiere Munaron è la mira di Archibald e compagni a difettare, i belgi sono pericolosi con un paio di contropiedi, ma Parks, impeccabile in uscita, sventa la minaccia. Nella ripresa al quarto d'ora, arriva la doccia fredda, sotto forma di un lancio in profondità di Olsen che innesca Czerniatynski. Il suo tocco  a scavalcare, trafigge l'incolpevole Tony. Il Tottenham si getta a testa bassa alla ricerca del pari,ma nonostante la pressione, il pallone di entrare proprio non ne vuol sapere....poi a sette minuti dal termine, dopo una potente conclusione di Ardiles che sbatte sulla traversa, è Graham Roberts a trovare lo spiraglio giusto per rimettere in carreggiata il match. Parità che non muta neppure ai supplementari, quindi trofeo che verrà assegnato dal dischetto. Nella prima serie di penalty, Tony vola alla sua sinistra e si prende la rivincita su Olsen neutralizzando la sua conclusione. In seguito dopo la grande precisione di entrambe le formazioni, Danny Thomas ha sui piedi il match ball ma Munaron intuisce e para. Gudjonsen potrebbe portare la serie ad oltranza...ma sale in cattedra proprio il ventunenne Parks che si tuffa sulla sua destra, respinge e chiude i giochi.

White Hart Lane è in delirio, la coppa é degli spurs e Tony diventa l’eroe di quella trionfale serata.

Andy Warhol sosteneva che ognuno nella vita avrebbe avuto a disposizione i suoi quindici minuti di gloria. In questo caso Tony è andato ben oltre, ne ha avuto 180, più supplementari e rigori ovviamente....


(Cristian Lafauci)

ROBERTO BAGGIO


E poi si spense la luce. Come se quel pallone calciato sopra la traversa di uno stadio a stelle e strisce americano si fosse frantumato contro un lampione di una piazza italiana e improvvisamente avesse causato un blackout sull’intero suolo italico. Rimanemmo al buio per diversi minuti, esausti e sconcertati. Roberto Baggio aveva appena fallito un calcio di rigore in una finale dei campionati del Mondo di calcio. Ci aveva tradito proprio lui, cazzo…a dirla tutta anche se avesse segnato quel rigore avremmo dovuto sperare poi in un errore dei brasiliani per continuare a giocarcela, ma il fatto che la matematica sconfitta fosse sancita da quel tiro alto nel cielo di Pasadena, ci gettò nello sconforto. Per noi ventenni del 1994, Roberto Baggio, pronunciato con nome e cognome per distinguerlo da Dino (meno propenso alle giocate di classe e più alle legnate) era il nostro messia. Quello che senza ombra di dubbio ci avrebbe portato in cima al mondo. Lui era il più forte giocatore italiano mai esistito e ce lo stavamo gustando e godendo noi, come se fosse una questione scontata. I nostri vecchi continuavano a menarla con Gianni Rivera e quel somaro di Valcareggi, per la manciata di minuti a Città del Messico, noi avevamo Roberto Baggio. Pensavamo di essere invincibili. In più avevamo un credito con la fortuna: solo una uscita a vuoto di Zenga quattro anni prima ci aveva tolto la vittoria casalinga. I mondiali americani trasudavano caldo e sudore dalla televisione e noi che ci riunivamo in un bar del centro storico, piccolo e angusto, volevamo provare le stesse sensazioni. Sudorazioni eccessive, birre a poco costo e grandi imprecazioni, come se ci trovassimo a giocare anche noi ai quaranta gradi americani dell’ora di pranzo. Il pertugio trovato all’ultimo istante con la Nigeria mise a tacere anche gli ultimi miscredenti che vacillavano sull’esito finale del mondiale. Uscimmo dal bar urlando: “Roberto Baggio! Roberto Baggio!”. Il messia si era mostrato nel momento più opportuno. Spagnoli e bulgari furono messi in angolino ad ammirare la nostra cavalcata verso il titolo. Solo quella gamba malconcia di Roberto ci dava noia e preoccupazione. Dalle radio uscivano i Blur. Girls and boys, storie di amori estivi, di ricerca di se stessi, di una vacanza spagnola a breve, non prima di aver racimolato quattro soldi con un lavoretto stagionale. Non ci mancava nulla ed in più avremmo vinto il mondiale di calcio. Ne eravamo sicuri. Quando la luce si riaccese dopo quel rigore, eravamo nudi e senza scudo. È come se quella sera fosse finito il periodo spensierato e si entrasse in qualcosa di più grande. Come se qualcuno ci gridasse nelle orecchie: “Benvenuti signori, c’è un mondo qua fuori e non saranno sempre rose e fiori”.


DP

GLASGOW IS BLUE

 


“Ed ora che si fa?” urlò infuriata e ansimante Giada. La corsa affannata verso quel pullman da non perdere assolutamente, le aveva reso le gambe dure come il muro e il respiro spezzato. Lei avrebbe voluto essere altrove, passeggiare ancora una volta sulla Royal Mile di Edimburgo invece che trovarsi in questo buco di culo chiamato Glasgow a rincorrere un mezzo che l’avrebbe portata a visitare uno stadio di calcio. Colpa del suo fidanzato Davide, e di quella sua fissa per il calcio. Anche in questi pochi giorni di vacanza natalizie che stavano trascorrendo in Scozia, l’aveva martellata col football ed oggi il programma prevedeva un luogo calcistico: Celtic Park. Davide sbuffò di delusione e rabbia. Quello era l’ultimo bus utile dalla stazione centrale dei treni di Glasgow per poter visitare Celtic Park con relativo tour, l’ultimo utile per poi aver il tempo necessario per rientrare ad Edimburgo, dove soggiornavano, con l’ultimo treno della sera. Davide guardò la cartina di Glasgow in cerca di un’alternativa credibile e l’occhio gli cadde sulla mappa della metropolitana, sulla circolare di Glasgow, e li trovò un nome famigliare: Ibrox.“Dai Giada, non ti preoccupare…..ti porto a vedere lo stadio dei Rangers!”. Giada non trovò nemmeno il coraggio di protestare, non trovò parole di fronte al fidanzato, si lasciò guidare sconsolata e infreddolita verso la scala che portava sotto l’asfalto di Glasgow. Poche fermate e sarebbero scesi a Ibrox. Il freddo gelido e il buio stavano arrivando veloci e impietosi come quel maledetto giorno di trentacinque anni prima, Ewan davanti al cancello di entrata di Ibrox stava ripensando a quella giornata faticosa che andava a terminare. Prima il cerimoniale per la commemorazione del disastro del 1971 in mattinata, poi i soliti tour dello stadio a cadenza oraria. Un sacco di gente a cui dare ascolto, i suoi 72 anni ormai iniziavano a pesare sul suo fisico asciutto. Era stanco e non vedeva l’ora di chiudere e tornarsene a casa. Sentì due persone litigare, proprio  davanti al monumento, fra le corone di fiori e le migliaia di oggetti lasciati a memoria. Due italiani….figurarsi. I soliti rozzi irrispettosi. Capiva qualcosa della loro lingua, di sicuro aveva inteso che la ragazza si lamentasse del fatto di aver trovato chiuso lo stadio e lo stesse rinfacciando in maniera diretta e nervosa al ragazzo che probabilmente era il suo fidanzato. Ebbe un moto di compassione e li chiamò con un cenno di mano. “Dai ragazzi, se smettete di litigare vi faccio fare un giro veloce” disse in un italiano stentato ma comprensibile.“Grazie mille signore, il mio fidanzato qua, è tutto il giorno che mi fa correre come una dannata, quando abbiamo perso il pullman per lo stadio del Celtic pensavo di svenire in strada”. Il Celtic no cazzo, il Celtic no cazzo. A questi due italiani ignoranti ora racconterò la nostra gloriosa storia al costo di star qua fino a mezzanotte. Ewan li fece accomodare in uno stanza dello stadio e gli portò del the caldo. Proseguirono visitando la sala trofei e gli spogliatoi, dove si sedettero su una panca di legno. Prese un respiro profondo ed entrò in tranche da narrazione in un inglese scolastico, perfetto per le limitate conoscenze dei due ragazzi. Raccontò loro degli oltre cento trofei vinti dal club ed in particolare della Coppa delle Coppe del 1972. Lui c’era al Camp Nou di Barcelona. Quel 3-2 alla Dinamo Mosca fu un partita incredibile, con invasione di campo dei tifosi scozzesi già dal primo gol della partita, un trofeo consegnato per la prima volta negli spogliatoi e che costò un anno di squalifica alla squadra in campo europeo per le intemperanze dei tifosi. Un episodio non certo edificante, per cui provare un poco di vergogna ma che veniva dopo poco più di un anno dalla tragedia del 2 Gennaio 1971, per cui il popolo dei gers aveva tanto pianto e sofferto. Durante il primo old firm dell’anno 1971 giocato ad Ibrox, nei minuti di recupero il Celtic passò in vantaggio. La folla dei Rangers iniziò a sfollare delusa verso l’esterno quando il capitano Colin Stein segnò il gol del pareggio. Nella confusione mista trepidazione per il pareggio ottenuto, probabilmente un bambino per mano al padre cadde a terra, provocando una reazione a catena. Il bilancio fu drammatico, sessantasei morti per asfissia e soffocamento, tra cui molti bambini. Una tragedia immane. Davide sentì una fitta al cuore. Tutto sembrò uguale e doloroso a quanto vissuto con la sua squadra del cuore in un giorno di Maggio del 1985 a Bruxelles. Sentì la stessa impotenza e rabbia verso un destino atroce, perfido, bastardo. Cercò di spiegarlo a Ewan. Il vecchio annui con le lacrime agli occhi.  “È una tragedia che ci ha sempre accomunati purtroppo. Ho sempre avuto un occhio di riguardo per la Juventus. L’ho sempre seguita da lontano ma con interesse. Vi dirò…la squadra di Lippi del 1996 è stata una delle più spettacolari viste in questo stadio negli ultimi vent’anni”. Davide e Giada, guardarono l’orologio. Il tempo era volato senza saperlo e anche l’ultimo treno di rientro per Edimburgo, ormai impossibile da prendere. Non ne fecero un grosso dramma, si sarebbero arrangiati in qualche modo. Salutarono affettuosamente Ewan. Quel tempo passato insieme a lui lo avrebbero portato nel cuore a lungo. “Ragazzi un’ultima cosa solo per voi”. Li fece uscire sull’esterno verso le tribune e mostrò loro Ibrox spendente e illuminato. Glasgow is blue.


DP

LE FOLIE CALAIS

A Calais c’è il mare in burrasca. Oggi non si vedono biancheggiare all’orizzonte le bianche scogliere di Dover. Volti familiari sferzati dal...